sabato 29 ottobre 2011

Importante petizione sul DSM-V

Gentili lettori, pubblico un'importante petizione ricevuta dal Prof. Paolo Migone, di seguito si spiegano le motivazioni. Ringrazio chi parteciperà.

"Cari colleghi,

Allen Frances, capo della task force del DSM-IV, è appena tornato negli Stati Uniti dopo aver tenuto alcuni seminari in Italia nei quali ha parlato delle sue critiche alle proposte del DSM-5, previsto per il 2013. Mi ha chiesto il favore, e lo faccio volentieri, di diffondere in Italia la notizia che pochi giorni fa alcune associazioni americane hanno deciso di iniziare una grande raccolta di firme, su scala mondiale, per chiedere alla task force del DSM-5 di ritirare alcune delle proposte fatte. Queste proposte del DSM-5 possono far aumentare esageratamente alcune diagnosi psichiatriche (quindi creare moltissimi “falsi positivi”), con risultato che non solo si distorcerebbero i dati epidemiologici ma soprattutto a molti cittadini verrebbero prescritti farmaci non necessari e a volte pericolosi (è fin troppo evidente in questa operazione l’interesse delle case farmaceutiche, che condizionano pesantemente la cultura e la pratica della psichiatria).


Sarebbe troppo lungo qui entrare nel dettaglio di quali sono le proposte diagnostiche discutibili del prossimo DSM-5. Si può solo accennare a quella di “Sindrome da rischio psicotico”, per cui molti giovani potrebbero essere etichettati in questo modo e ricevere gli antipsicotici atipici che, oltre a essere molto costosi, possono provocare aumenti di peso (e tra l’altro pare che non diminuiscano il rischio di schizofrenia). Oppure si pensi all’ampliamento dei criteri della Depressione Maggiore che vorrebbe includere aspetti del lutto, per cui, per così dire, a molte persone verrebbe tolta la legittimità di essere tristi (con tutti gli aspetti adattivi e di “salute mentale”), verrebbero etichettate come “depresse” e riceverebbero farmaci antidepressivi (peraltro di poca efficacia, come è emerso da molte ricerche controllate), senza contare che già l’11% della popolazione americana li assume (una percentuale impressionante, che fa pensare che vengano prescritti anche a molti che non ne hanno bisogno). Oppure si pensi al Binge Eating, anch’esso ampliato nei criteri, e così via. In generale, insomma, il DSM-5 abbasserebbe molto la soglia di molte diagnosi. Le implicazioni sociologiche ed economiche di questa problematica sono fin troppo ovvie che non c’è bisogno di menzionarle.


La campagna che Frances assieme a Bob Spitzer (che era stato capo della task force del DSM-III) e altri sta conducendo contro la bozza del DSM-5 ha ottenuto alcuni effetti ma non è ancora riuscita a far modificare in modo sostanziale gli aspetti più pericolosi del DSM-5, ed è per questo che è stato deciso di fare una petizione. L’idea è che, se molti membri della professione protestano contro questa bozza, gli autori del DSM-5 temano che il manuale poi venda poco o non venga seguìto, e che questa loro paura possa indurli a fare delle modifiche.


La petizione è stata promossa innanzitutto da alcune Divisioni della American Psychological Association: la Division 32 (Society for Humanistic Psychology), la Division 27 (Community Psychology), la Division 49 (Society for Group Psychology and Psychotherapy), e poi dalla Association for Women in Psychology, dalla Society for Descriptive Psychology, ecc., e anche da associazioni di altri paesi.


Per firmare la petizione occorre andare alla pagina web


http://www.ipetitions.com/petition/dsm5/#sign_petition


e scorrerla fino in fondo dove c’è il modulo per firmare. In questa pagina vi è una “Open letter” che illustra in modo abbastanza dettagliato alcuni problemi del DSM-5. Per chi non legge l’inglese, in italiano è uscita una anticipazione di questo dibattito a pp. 247-262 del n. 2/2011 di Psicoterapia e Scienze Umane, con interventi di Bob Spitzer e Allen Frances (“Guerre psicologiche: critiche alla preparazione del DSM-5”). L’annuncio del seminario che Frances ha tenuto a Bologna il 22 ottobre scorso, organizzato dalla rivista Psicoterapia e Scienze Umane in collaborazione con la AUSL di Bologna che lo ha inserito all’interno della “Settimana della Salute Mentale”, è alla pagina web:

http://www.psicoterapiaescienzeumane.it/Frances_22-10-11.htm
(a questa pagina è linkata una intervista di Frances apparsa sul Corriere).

La bozza del DSM-5 è all’indirizzo Internet:
http://www.dsm5.org


Grazie per l’attenzione.


Paolo Migone

Condirettore di Psicoterapia e Scienze Umane

http://www.psicoterapiaescienzeumane.it

Via Palestro, 14

43123 Parma PR

Tel. 0521-960595

E-Mail: migone@unipr.it"

domenica 1 maggio 2011

Riflessioni dal passato: Epicuro, Lettera a Meneceo sulla felicità



"Caro Meneceo, sappi che la conoscenza della felicità non richiede un'età precisa, perché a qualsiasi età è piacevole prendersi cura della propria vita. Chi sostiene che non è ancora giunto il tempo di dedicarvisi, oppure che oramai è troppo tardi, crede che il momento giusto per farlo è alle nostre spalle oppure davanti a noi.
Al contrario, conoscere la felicità riguarda sia il giovane, sia l’anziano: il secondo per trarne benessere dal caro ricordo di ciò che ha realizzato, il primo per trarne forza e nutrimento e prepararsi a non temere il futuro.

Ti mostrerò, dunque, quello che bisogna fare per ottenere la felicità, perché la sua presenza soddisfa la nostra vita, mentre la sua assenza ci spinge a fare di tutto per ottenenerla. Rifletti sulle cose che ti raccomando e, allo stesso tempo, mettile in pratica: sono fondamentali per una vita ben realizzata.

Prima di tutto, allora, considera che la vita divina è eterna e felice, come suggerisce la comune idea che abbiamo di dio: ogni divinità possiede una vita infinita e sempre felice. Va da sé che non ci sono dubbi sull’esistenza degli dei, ma le divinità non sono come le credono molte persone, che così facendo mettono in dubbio o tradiscono le loro stesse certezze più profonde. Ricordati che non è empio e irriverente chi rifiuta la religione popolare, ma chi attribuisce agli dei le convinzioni errate della gente comune. Questi giudizi sono false opinioni, perché di volta in volta attribuiscono agli dei la causa o delle più grandi sofferenze o dei beni più straordinari. In realtà, Meneceo, gli dei sono assolutamente felici e mostrano di riconoscere la somiglianza con le persone piene di virtù, quanto di mantenere la distanza da chi ne è completamente privo.

In secondo luogo, abituati Meneceo a pensare che la morte non è nulla per noi, perché le sofferenze o i piaceri si acquisiscono con i sensi; la morte, invece, non è altro che l’incapacità di avere coscienza.

La consapevolezza che la morte non significa nulla per noi rende godibile la mortalità della vita, scacciando l’inganno del tempo infinito che è provocato, invece, dal desiderio della immortalità. Non c'è nulla di terribile nel vivere per chi sa che non c'è nulla da temere nel non vivere più. Perciò è stupido chi sostiene di aver paura della morte, perché egli non teme la sofferenza al suo arrivo, ma piuttosto lo affligge la continua attesa di morire. E’ strano: quello che non ci turba, una volta presente, è condannato a portarci alla pazzia se è atteso in modo irrazionale.

Invece, vedi Meneceo, la morte – considerata il più atroce di tutti i mali – non esiste per noi. Quando noi viviamo, la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo più noi.
Dunque, la morte non è nulla per noi, che siamo vivi, né per i morti, che non sono più.

Invece, la gente comune fugge la morte come il peggior male, oppure la invoca come un luogo di pace rispetto ai mali che vive.
Nota, Meneceo, che il vero saggio ha piacere di vivere, così come non teme di non vivere più. La vita per lui non è un male, né è un male il non vivere.
ll saggio si comporta come nel mangiare: come sceglie i cibi migliori e non le porzioni più grandi, così si realiza non perché vive a lungo ma perché trascorre delle dolci giornate.

Alcuni invitano il giovane a vivere bene e il vecchio a morire bene, ma questo è di nuovo sciocco non solo per la dolcezza che la vita sempre riserva – anche da vecchi - ma anche perché una bella vita ed una bella morte fanno parte dello stesso stile di comportamento. Altri, ancora peggio, dicono che è meglio non nascere per niente, oppure, una volta venuti al mondo, passare al più presto la porta dell'Ade. Se sono così convinti, perché allora non se ne vanno via da questo mondo? Se lo vogliono veramente, non glielo vieta nessuno. Se lo dicono così per dire, forse è meglio che cambino discorso. Ricordiamoci poi, Meneceo, che il futuro sì ci appartiene, ma solo in parte.

Solo così possiamo aspettarci che non si realizzi completamente tutto ciò che vogliamo, ma anche sapere che dobbiamo svolgere la nostra parte. Così pure teniamo presente che solo alcuni desideri sono naturali e profondi, mentre molti altri invece sono inutili; e fra i naturali solo alcuni sono bisogni necessari. Alcuni di questi sono fondamentali per la felicità, altri invece per il benessere fisico, altri ancora per la stessa sopravvivenza.
Una conoscenza attenta dei desideri guida ogni nostra scelta, come ogni nostro rifiuto, al fine di raggiungere il benessere del corpo e la perfetta serenità della mente.

Le cene e le feste, il godimento con i fanciulli e le donne, i buoni pesci e quanto può offrire una ricca tavola non portano la dolcezza della vita felice. Questo lo porta il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che provocano un rovellio profondo. In realtà, Meneceo, il principio e bene supremo nella condotta è la saggezza, che appunto guida la stessa filosofia, madre di tutte le altre virtù. Essa ci aiuta a comprendere che non c’è vita felice senza che sia saggia, bella e giusta, né vita saggia, bella e giusta che sia priva di felicità, perché le virtù sono connaturate alla felicità e da questa inseparabili.

Considera, Meneceo, che vi è rispetto e ammirazione per chi ha un’opinione corretta e rispettosa degli dei, per chi non ha paura della morte e ha chiara coscienza del senso della natura, per chi ritiene che beni utili si procurano facilmente; infine per chi ritiene che i mali che affliggono profondamente la persona, lo fanno per poco, altrimenti se lo affliggono a lungo vuol dire che si possono sopportare. Questo genere d’uomo sa anche che è stupido credere che il fato sia padrone di tutto, come pensano alcuni; le cose accadono o per necessità, o per volontà della fortuna, o per volontà nostra. Se la necessità è irresponsabile e la fortuna instabile, invece la nostra volontà è libera: per questo può meritarsi lode o biasimo.

Al posto di essere resi schiavi del destino dei materialisti, era meglio allora credere ai racconti degli dei, che almeno offrono la speranza di placare la divinità con le preghiere, invece di quest'atroce, inflessibile Necessità.
Al contrario la fortuna per il saggio non è una divinità come per la gente comune – la divinità non fa nulla a caso – e neppure qualcosa priva di consistenza. Il saggio non crede che il caso arrechi agli uomini alcun bene o male determinante per la vita
felice, ma sa che la fortuna può avviare grandi beni o grandi mali. Però è meglio essere senza fortuna ma saggi, piuttosto che fortunati e stolti; nella vita quotidiana, poi, preferisco che un bel progetto non vada in porto, piuttosto che abbia successo un progetto dissennato.

Mi raccomando, Meneceo: rifletti, quando ti capita, di giorno oppure di notte, su quello che ti ho detto e su altre cose simili. Fallo da solo o con chi ti è vicino e sarai sempre libero dall'angoscia.

Vivrai come un dio tra gli uomini, perché l’uomo che vive tra i beni immortali non sembra più neanche mortale".

Epicuro(Samo 341 a. C. Atene 271 a.C.),
Lettera a Meneceo sulla felicità

Note:
Traduzione di Roberto Confessi in "L'attimo fuggente e la stabilità del bene", di Salvatore Natoli. Edup Ed.

sabato 9 aprile 2011

Il dialogo ermeneutico


"Il dialogo ermeneutico" riflessioni di Pio Scilligo su Gadamer tratto da: Pio Scilligo (2006) "Tra Empirismo e Ermeneutica in Psicologia" Psicologia Psicoterapia e Salute,12,1,1-29.

"L'ampliamento di orizzonti richiede un dialogo ermeneutico che consiste in un processo nel quale si cerca di dare senso ai significati, alle interpretazioni, agli impegni propri e degli altri quando differiscono dai propri. La comprensione genuina si avrà nella fusione degli orizzonti.

Il primo passo nel dialogo ermeneutico è quello di comprendere i significati sottesi dalle prospettive delle persone in dialogo. E’ un gioco circolare tra apertura e applicazione.

La fase iniziale dell'apertura (Gadamer, 1975) si fonda sul presupposto che nessuno ha un vantaggio di verità e che l'altro potrebbe avere qualcosa di importante da comunicarci. L'apertura genuina implica garantire all'altro momentanea autorità di sfidare le convinzioni e i pregiudizi del partner in dialogo (Warkne, 1987, p. 167), nel tentativo di arrivare a capire come l'interlocutore possa avere le sue convinzioni e vivere il suo modo di vedere la vita come vero e pieno di significato. La fusione avviene quando si è in grado di prendere una posizione di rispettosa apertura all'altro, quando concediamo all'altro l'autorità di mettere in discussione i nostri assunti e i nostri valori più profondi. Secondo Gadamer questo è il modo più autentico di metterci in relazione con l’altro.

La seconda fase del dialogo, l'applicazione, implica sottoporre a prova in modo critico le intuizioni e i punti di vista emersi dall'apertura, per vedere se offrono una visione migliore per la situazione attuale e per le nuove circostanze e possibili nuove sfide: quanto viene appreso viene sempre modificato dalle proprie circostanze concrete e dal proprio contesto storico, non accettato criticamente.

Ci sono dei rischi nell'uso dell'apertura e dell'applicazione. Il rischio principale dell'apertura è il conservatorismo (Warnke, 1987) che implica un'adesione cieca all'autorità e la razionalizzazione dello status quo. Un rimedio a tale non autentica razionalizzazione è un'ulteriore applicazione delle nuove scoperte alla propria situazione storica. Il rischio principale dell'applicazione è l'interpretazione opportunistica degli eventi e dei principi in modo egoisticamente autoreferenziale. Il rimedio a tale tendenza arbitraria è nuovamente una ulteriore, spesso dolorosa, apertura alle sfide degli altri in un processo nel quale l'iniziativa creativa e l'informazione conoscitiva continuano la loro danza. Gadamer (1981) ritiene che questo processo continuo di botta e risposta contraddistingua non solo la comprensione dei testi e di altre forme di discorso, ma caratterizzi anche il gioco dello svolgersi della tradizione. Secondo il modo di vedere di Gadamer, siamo sempre impegnati in un continuo dialogo tra le significative e storiche pre-comprensioni in cui siamo immersi e la continua verifica degli assunti alla luce di cosa i testi e gli interlocutori hanno da dire. L'essere umano si trova in un dialogo ininterrotto, nel quale le voci del passato sono criticamente ascoltate per trovare la verità applicabile al presente. In questo modo l'orizzonte e le domande che facciamo sono costantemente trasformati attraverso il dialogo in atto (Gadamer, 1981, p. 232)".