domenica 28 dicembre 2008

"Saper ascoltare"


Vi è mai capitato di aver pensato che una certa persona non sapesse proprio ascoltare o di esservi accorti - solo in un tempo successivo - che qualcuno vi stava comunicando qualcosa di molto importante a cui voi non avete saputo prestare attenzione? Oppure di prevaricare in continuazione sull’altro, alzando la voce senza fermarvi ad ascoltarlo?




Credo sia banale ricordare che l’ascolto è una relazione imprescindibile tra gli esseri umani, capace di promuovere l’incontro, il contatto e la crescita personale; l’ascolto offre la possibilità del confronto e di vedere oltre il proprio orticello. Esso è la qualità principale di ogni colloquio, non solo di quello psicologico. D’altro canto, non è altrettanto banale la conoscenza dei principi basilari dell’ascolto.




Ascoltare è un’azione intellettuale ed emotiva, significa cogliere pienamente quello che la persona vuole dire con le parole e con il corpo.




Possiamo riassumere le tipologie dell’ascolto a tre tipi principali:




l’ascolto passivo: si ha quando il ricevente non invia nessun feedback al proprio interlocutore: si limita ad udirlo e basta, le parole entrano in un orecchio ed escono dall’altro. Questa modalità non solo lascia deluso l’emittente ma non permette di cogliere gli aspetti essenziali dell’altro;



l’ascolto selettivo: si verifica quando il ricevente seleziona le informazioni che l’emittente invia, recependo quelle che ritiene, in qualche modo, interessanti e scartando il rimanente. In tal modo una parte importante del contenuto andrà perduta per sempre;



l’ascolto attivo: è l’unico che porta ad una comunicazione efficace. E’ un ascolto che crea contatto nel qui ed ora, restituisce un feedback su quello che si è appena ascoltato, evita il giudizio e coglie i contenuti e tutte le sfumature (verbali e non verbali) della comunicazione. L’ascolto attivo richiede la capacità di ascoltare l’altro pienamente.




Impariamo ad ascoltare se sappiamo afferrare in pieno quanto l’altro sta dicendo manifestando di averlo compreso con riformulazioni, se riusciamo a sottolineare gli aspetti più salienti e significativi e rispettiamo le pause dell’altro, se non imponiamo il nostro stile comunicativo ma siamo capaci di adattarci allo stile dell’altro, se evitiamo di fare domande su domande ma ci dedichiamo ad approfondire un tema alla volta, se nell’ascolto riusciamo ad essere noi stessi. Tutto questo fa davvero la differenza tra l’ascolto di una persona e quello del più tecnologico supporto di registrazione.




Le dimensioni cruciali dell’ascolto (3V+B)




Ivey e altri ricercatori hanno studiato che la capacità di prestare attenzione ed ascolto è costituita da quattro dimensioni cruciali, che sono il primo scalino per tutte le altre tecniche di ascolto attivo. In breve, per comunicare che si sta realmente ascoltando e prestando attenzione all’altro sono necessarie le tre “V” più un linguaggio corporeo che dimostri attenzione “+B” (Ivey, Normington, Miller, Morril e Haase, 1968). Le riporto così come sono espresse dagli autori citati:




  1. Contatto Visivo (Visual Contact). Se sta per parlare con delle persone le guardi.

  2. Tono della voce (Vocal quality). Anche il tono di voce ed il ritmo nel parlare indicano chiaramente come lei si sente verso un’altra persona. Pensi in quanti modi può dire: “Sono davvero interessato a ciò che ha da dire” cambiando semplicemente il tono della voce ed il ritmo del discorso.

  3. Aderenza verbale (Verbal tracking). Il cliente [ndr: qui si parla di counselling, ma cliente può essere inteso anche come l’amico, il familiare, il/la compagno/a o semplicemente l’altro] è venuto da lei con una sua preoccupazione. Non cambi argomento; rimanga aderente alla storia del cliente.

  4. Linguaggio corporeo che dimostri attenzione ed autenticità (Body language). I clienti sanno che lei è interessato se si pone di fronte a loro apertamente, se si inclina leggermente in avanti, se ha un viso espressivo e usa dei gesti incoraggianti e facilitanti. In breve, sia se stesso – l’autenticità nell’ascolto è essenziale.”

Quali sono gli errori da evitare?




Una serie di errori possono pregiudicare la funzionalità di una comunicazione efficace, questi errori sono stati individuati da T. Gordon, un importante studioso della comunicazione e teorico dell’ascolto attivo. Gli errori da evitare secondo Gordon sono:




  1. Ordinare, comandare, esigere;

  2. Avvertire, minacciare;

  3. Far la predica, rimproverare, dire cosa si deve o non si deve fare;

  4. Consigliare, offrire soluzioni o suggerimenti;

  5. Redarguire, ammonire, fare argomentazioni logiche;

  6. Giudicare, criticare, disapprovare, biasimare;

  7. Apprezzare, concordare, dare valutazioni positive;

  8. Definire, stereotipare, ridicolizzare;

  9. Interpretare, analizzare, diagnosticare;

  10. Rassicurare, mostrare comprensione, consolare, incoraggiare;

  11. Fare domande, indagare, mettere in dubbio, controinterrogare;

  12. Eludere, distrarre, fare del sarcasmo, fare dello spirito, cambiare argomento.



Inoltre, Gordon fa osservare che queste barriere alla comunicazione contengono sempre il pronome “tu”, Tu sei così …” “Tu non l’hai fatto …” “Tu dovresti comportarti diversamente …” con il risultato che l’altro non si sente accolto ma disconfermato. I messaggi-Tu esprimono un giudizio su chi ascolta. I messaggi-Io, invece, palesano un sentimento di chi parla, vi è un “assunzione di responsabilità” che decodifica uno stato di fatto e che predispone ad un confronto di crescita tra gli interlocutori.


Qualche consiglio pratico:



  • Tenere un buon grado di contatto oculare. Seppure possono esistere differenze culturali, va considerato che nella cultura europea e nordamericana il contatto oculare diretto è considerato un segno di interesse, se però si notano imbarazzo e disagio può essere importante evitare il contatto oculare troppo diretto e distogliere lo sguardo per non sembrare invadenti. In tal modo potremo anche notare che se l’emittente parla di un argomento particolarmente interessante, le sue pupille tendono a dilatarsi o, al contrario, a contarsi se lo ritiene noioso.

  • Anche la voce comunica emozioni, i cambiamenti di tono, volume e velocità possono segnalare cambiamenti importanti ad esempio: esitazioni e interruzioni possono indicare confusione e stress, schiarirsi la voce può significare che le parole non vengono fuori facilmente. Se alcune parole sono enfatizzate quasi sicuramente avranno a che fare con temi significativi e rilevanti per quella persona.

  • La nostra postura, se seduti, va orientata, protesa verso l’interlocutore, se in piedi possiamo avvicinarci. Sarà importante anche notare come cambia la postura nell’altro, se è protesa in avanti denota interesse, se si tira indietro noia o spavento.

  • Prestare attenzione alle nostre espressioni facciali perché queste possono sottolineare interesse o noia.

  • Di tanto in tanto annuire col capo, dire “capisco”, “certo”, “comprendo” etc, perchè fornisce all’interlocutore chiari segnali di ascolto.

  • Di tanto in tanto riassumere, con parole proprie, ciò che è stato detto: “se comprendo bene stai dicendo che…”, “vuoi dire che…”.

  • Fare domande aperte e non chiuse, domande cioè che lasciano spazio di espressione al nostro interlocutore.

  • Anche le pause e i silenzi sono importanti, se la persona è a suo agio nel silenzio, è importante rimanere uniti nel silenzio, se, invece, si percepisce imbarazzo o disagio può essere importante fare una domanda o un commento su qualcosa di significativo detto appena prima.

  • Essere se stessi, non mascherarsi, non compiacere ad ogni costo ma lasciar andare il nostro ascolto a tutto ciò che c’è di profondamente umano nell’altro.

  • E’ importante anche imparare ad ascoltare noi stessi e le nostre emozioni mentre si ascolta l’altro, è in questo modo che saremo empatici.

***



Ascoltare attentamente permette di costruire legami significativi con gli altri, è un’abilità sociale (Goleman, 1998), aumenta l’autostima e la fiducia in se stessi, si impara a conoscere più approfonditamente gli altri, questi ultimi si sentiranno sostenuti e sicuri di esplorare i loro sentimenti ed esprimere le loro idee in nostra presenza. L’ascolto crea un clima di fiducia, di rispetto e di comprensione tra le persone, mentre il non sapere ascoltare può influire negativamente sulla qualità delle nostre relazioni, lasciandoci con sensazioni di inquietudine e di vuoto.



E’ necessario anche considerare che le nostre peculiarità nell’ascolto sono condizionate dai modelli appresi quando si era bambini, dalle figure significative del nostro ambiente e dalle nostre decisioni di copione. Per prendere consapevolezza di questi aspetti, e poter attuare il cambiamento che si desidera, può essere illuminante effettuare un percorso di psicoterapia.



Un ultimo e prezioso suggerimento può essere quello di ascoltare spesso della buona musica, perché, come sostiene il grande maestro Claudio Abbado:




è la musica che insegna ad ascoltare, se si ascolta, s’impara.


Bibliografia:

Ivey, A.E. & Bradford Ivey, M. (2004). Il colloquio intenzionale e il counselling. Las, Roma


Ivey, A., Normington, N., Miller, D., Morril, W., & Haase, (1968). Microcounselling and attending hehavior: An approach to pre-practicum counsellor training. Journal of Conseling Psycology, 15, 1-12.


Goleman, D. (1998). Emotional Intelligence: Why it can matter more than IQ. New York: Bantam.

Gordon, T. (1993). Insegnanti efficaci, Giunti Lisciani Editori.


Scilligo P.,(1991-1992-1993). Io e tu. Parlare, capire e farsi capire, vol. 1,2,3, Roma: IFREP.









lunedì 8 dicembre 2008

"Una psicobufala a caso: quando vai dallo psicologo devi sdraiarti sul lettino”.




Il titolo del post nasce dalla lettura di un libro: “Psicobufale. Dall’Anoressia alla Zoofobia, come difendersi dalle balle raccontate dai media e continuare a credere nella psicologia”, scritto con ironia e professionalità da Silvia Bianconcini*, Psicologa Psicoterapeuta. Nel libro l’autrice raccoglie una serie di informazioni distorte sulla psicologia e ci invita a diffidarne e a districare la verità. Così scriveva nel 2005 la collega Silvia Bianconcini:

Faccio parte della nutrita schiera degli strizzacervelli. Non so, viste le psico-sciocchezze che si sentono da tutte le parti, se io debba andarne fiera. Fatto sta che più faccio questo mestiere e più mi piace. Perché non ha granché in comune con quel che si dice in giro. E allora che facciamo di tutte le psico-corbellerie da cui siamo circondati? Io una modesta proposta ce l’avrei: le piazziamo in questo blog!”.
Da qui la nascita del suo blog: http://psico-bufale.splinder.com/ Dai contenuti più efficaci del blog nasce il libro, edito da Rizzoli.

Dopo averlo letto con attenzione, seleziono qui una psicobufala a caso: “quando vai dallo psicologo devi sdraiarti sul lettino”. Infatti, occorre sapere che il lettino non è affatto una caratteristica obbligatoria della stanza di uno psicologo. L’autrice informa che vi sono molti psicologi che usano due poltroncine, una per il paziente e una per il professionista, altri ancora si siedono dietro una scrivania. In breve, il lettino è una generalizzazione non corretta, che, come afferma la Bianconcini, sa più di leggenda metropolitana piuttosto che corrispondere ad una realtà, che è invece più variegata. La ragione più fondata per la quale si utilizza il lettino è la facilità di regressione allo stadio infantile evocata dalla posizione sdraiata: così come il bambino ha poca libertà di movimento e autonomia nelle decisioni, anche il paziente - sul lettino - ha meno libertà di movimento e campo visivo dell’analista, seduto alle spalle del paziente. Ma al di fuori di questa importante considerazione, è completamente infondata l’equazione “psicologi = lettino sempre e comunque”. Come scrive l’autrice: “se entrate nello studio di uno psicologo e non trovate il lettino non stupitevi, non pensate di aver sbagliato indirizzo, non mettetevi a temere che sia uno psicologo di serie B. E’ molto semplice: lui non lo usa, e basta.”.

Consiglio la lettura del libro, esso è utile per avere una visione più realistica del mondo della psicologia e poterne, pertanto, usufruire in modo più informato e senza timori irrazionali. Di seguito si potranno leggere i titoli di altre psicobufale trattate nel libro e in continuo aggiornamento nel blog..

* Silvia Bianconcini, vive e lavora a Imola, ha creato e cura personalmente anche il sito: http://www.psicologia-imola.it/


SOMMARIO
INTRODUZIONE:
Psicobufale: leggende metropolitane sulla psicologia (e sugli psicologi)
Psico-cosa?
"Dallo psicologo funziona come dal medico"
PSICOBUFALE:
A come Anoressia
B come Buoni consigli
C come Curare
D come Depressione
D come Dire tutto
E come Euro-dipendenza
F come Follia
G come Gesti
H come High-tech
I come Inconscio
L come Lettino
L come Lettura del pensiero
M come Medicine
N come Novità
O come Omosessualità
P come Pensieri degli altri
Q come Quarantenni
R come Ricordi traumatici
S come Sogni
S come Sostenibilità della terapia
T come Test psicologici
U come Uguale
V come Voci
Z come Zoofobia

CONCLUSIONI

mercoledì 19 novembre 2008

"Come scegliere lo psicoterapeuta?"


Scegliere uno psicoterapeuta non è semplice, i dubbi e le perplessità potrebbero essere molteplici e magari si vorrebbe avere per se stessi lo psicoterapeuta infallibile. E’ bene ricordare che la psicoterapia è un lavoro che è basato sulla collaborazione e richiede la partecipazione attiva del paziente stesso. Lo psicoterapeuta competente aiuta la persona a ritrovare le radici dei propri blocchi e conflitti, in modo che la persona raggiunga il cambiamento desiderato ed una crescita personale. Ciò che conta in questo percorso è soprattutto una buona alleanza di lavoro tra il professionista e la persona, tuttavia la preparazione professionale ed etica dello psicoterapeuta non può prescindere da alcune caratteristiche.




Le caratteristiche principali di un buon psicoterapeuta sono:






  • “essere laureato in medicina o psicologia, o comunque essere iscritto all’ordine dei medici e degli psicologi;

  • aver frequentato e completato una scuola di specializzazione post-universitaria in una delle forme di psicoterapia accreditata;

  • svolgere uno o più colloqui di orientamento;

  • informare chiaramente durante tali colloqui sulla propria opinione circa i problemi del paziente e su quanto necessita fare (es. una psicoterapia, da sola o congiuntamente a dei farmaci);

  • affrontare il rapporto con il paziente con discrezione e nei limiti di un rapporto esclusivamente professionale;

  • esporre con precisione quanto il paziente deve tenere in considerazione nei termini di un impegno da parte sua”.




Come valutare invece quando uno psicoterapeuta si rapporta in modo poco professionale al suo futuro paziente?



  • “di fronte alla richiesta circa la natura dei propri problemi e sui risultati che ci si potrebbe aspettare da uno psicoterapeuta, le risposte sono evasive, vaghe: lo psicoterapeuta da l’impressione di non volersi impegnare, né compromettere;


  • al contrario le risposte sono improntate a un tono illusorio: la guarigione viene garantita o data per scontata;


  • il tono dell’incontro diviene immediatamente confidenziale e cameratesco: si passa subito al “tu”, e in sostanza il terapeuta fa capire di essere una sorta di “amicone” del quale ci si può tranquillamente fidare;


  • durante il colloquio si fanno nomi di altri pazienti;


  • viene detto o fatto capire che si potrà uscire dai confini di un rapporto professionale: non è necessario arrivare a un invito a cena esplicito, ci sono tanti modi per lasciare intendere!


  • viene espresso un atteggiamento svalutativo o denigratorio verso altri colleghi o altre psicoterapie: un terapeuta serio non si pronuncia su quanto non conosce in prima persona, ed è comunque rispettoso del lavoro altrui”.



Cosa richiede lo psicoterapeuta?



  • “la disponibilità ad entrare in un lavoro su se stessi in cui l’effetto immediato, per come ce lo si può aspettare da un farmaco, va dimenticato: il conoscere se stessi ha tempi adeguati. Soprattutto, lo scopo della psicoterapia non è quello di far “scomparire” dei sintomi disturbanti bensì quello di ritrovare un equilibrio globale. Questa ricerca deve passare attraverso una rielaborazione di quello che ha condotto nella vita precedente agli scompensi che hanno portato alla psicoterapia. [...] [ndr: le terapie brevi o focali possono avere risultati più limitati e questo va comunicato alla persona];

  • lo psicoterapeuta chiederà la disponibilità a investire nel tempo; questo significa un certo lasso di tempo nel lungo periodo (mesi o anni), nell’immediato di riservare una o più ore della propria settimana per le sedute;

  • verrà definita la necessità improrogabile di assumere un atteggiamento attivo nel lavoro: questo potrà significare per qualcuno l’impegno a riportare i sogni, per altri l’attenzione ai propri dialoghi interni e così via dicendo in base alla tecnica seguita.”




Cosa offre lo psicoterapeuta?



“uno o più colloqui orientativi: prima di arrivare a un impegno contrattuale definito, lo psicoterapeuta e il potenziale paziente devono conoscersi. Lo psicoterapeuta deve avere il tempo sufficiente per valutare le problematiche di chi ha di fronte, per decidere di cosa ha bisogno: è bene quindi diffidare dalle assunzioni in terapia affrettate, ad esempio per telefono o nei primi minuti del primo colloquio. Un terapeuta etico e competente avrà necessità di entrare in confidenza con il paziente. Al contrario egli dovrà assicurare al paziente il tempo necessario per avere un’idea seria di cosa si deve aspettare entrando in una psicoterapia;


  • il terapeuta fornirà informazioni chiare ed esaurienti rispetto alle legittime richieste del paziente riguardo ai suoi titoli, alla natura della psicoterapia svolta, alla durata media dell’intervento (ribadendo con assoluta chiarezza che nel caso singolo previsioni non se ne possono fare), ai costi;

  • il terapeuta garantirà una discrezione totale sulla psicoterapia del suo paziente […]

  • il terapeuta illustrerà realisticamente i fini e i possibili risultati del suo metodo di trattamento, sgombrando il campo da facili entusiasmi o pretese miracolistiche.”

Queste interessanti e brevi indicazioni sono tratte dal libro: “Scegliere lo psicoterapeuta. Come e quando”, di Michele Novellino, Franco Angeli, Le Comete, 2002. Il volume è molto utile per chi vuole rivolgersi alla psicoterapia. Esso pone riflessioni su domande come: quand'è il caso di rivolgersi ad uno psicoterapeuta?; come orientarsi tra le diverse psicoterapie?; che cosa avviene in una seduta?; come si svolge il primo colloquio? etc. Inoltre, personalmente, ho trovato particolarmente interessante e costruttivo l'apporto di noti capiscuola della psicoterapia, ciascuno dei quali illustra, in capitoli separati, le caratteristiche principali del proprio metodo.

sabato 15 novembre 2008

“Piccole riflessioni sulla crisi quale possibilità di cambiamento e crescita personale”




In verità, in verità vi dico:
se il chicco di grano che cade nella terra non morrà, resterà solo; ma se morrà, darà molti frutti.

Vangelo secondo Giovanni, XII, 24





Il termine crisi deriva dal greco κρινω che vuol dire scegliere, decidere, separare, discriminare. La crisi corrisponde al momento della scelta e implicitamente porta in sé l’idea di cambiamento, della trasformazione, del passaggio e quindi anche della possibilità di una crescita personale.



Seppure scegliere può essere doloroso e per l’appunto vissuto come crisi, per crescere è necessario attuare una scelta. Nei momenti critici ci si può sentire lacerati, divisi in posizioni conflittuali, una parte di noi sembra volere andare in una direzione e l’altra in quella opposta ma per poter andare avanti è necessario separarsi da quello che non ci occorre più.



Riflettiamo su queste parole di Jaspers, per il quale la crisi è un punto di passaggio dove:



“il tutto subisce un cambiamento subitaneo, dal quale l’individuo esce trasformato, sia dando origine a una nuova risoluzione, sia andando verso la decadenza. La storia della vita non segue il corso unitario del tempo, struttura il proprio tempo qualitativamente, spinge lo sviluppo delle esperienze a quell’estremo che rende inevitabile la decisione. Solo opponendosi allo sviluppo l’uomo può fare il vano tentativo di mantenersi nella posizione di dominare la decisione senza decidere. Poi la decisione avviene suo malgrado mediante la continuazione effettiva della vita. La crisi ha il suo momento non può essere anticipata né saltata. Deve, come tutte le cose della vita, maturare. Non deve apparire necessariamente in modo acuto come una catastrofe, ma può con un andamento silenzioso, apparentemente senza dare nell’occhio, compiersi per sempre in modo decisivo” (Jaspers, 1964).


La crisi può assumere un significato positivo, quando si è capaci di vederla come l’espressione di un bisogno emergente, di un desiderio frustrato, di perdite e fallimenti da riconsiderare, di qualcosa che può essere cambiato secondo le nostre necessità attuali e che può tendere ad una spinta evolutiva e non ad un semplice momento di stasi e regressione. Se la crisi, invece, sfugge al controllo del soggetto, egli non riuscirà ad utilizzarla in maniera costruttiva per la propria crescita e si avvierà un cambiamento negativo.



Per Caplan (1961) la crisi è:


« uno stato che si verifica quando una persona si trova a fronteggiare un ostacolo che le impedisce il raggiungimento d’importanti obiettivi vitali; questo è, per un certo lasso di tempo, insormontabile tramite l’utilizzazione di metodi abituali di risoluzione di problemi. Ne consegue un periodo di disorganizzazione, un periodo di sconvolgimento, durante il quale sono fatti molti tentativi verso la risoluzione del problema, che però abortiscono. Alla fine è raggiunta una qualche forma d’adattamento, che può rivelarsi o meno come la soluzione più utile per la persona e per chi le sta vicino».



L’autore, inoltre, individua un processo di crisi che suddivide nelle seguenti fasi sequenziali:





  1. iniziale ascesa della tensione e messa in atto di abituali meccanismi di risoluzione dei problemi;

  2. fallimento di queste strategie con un conseguente aumento della tensione al punto tale che l’individuo può sentirsi impotente e rassegnato;

  3. messa in atto di nuove strategie, in quanto si possono prendere in considerazione nuovi aspetti del problema e strumenti non ancora sperimentati;

  4. se vi è il fallimento di ogni tentativo, si determina un ulteriore aumento della tensione e, dopo un periodo di circa 4-6 settimane, si assiste comunque alla manifestazione spontanea di una risposta, qualunque essa sia.

Dalla teoria della crisi di Caplan, sono state derivate tecniche che i professionisti adottano allo scopo di aiutare le persone a modificare stati d’animo, sentimenti, sintomi o comportamenti, considerati maladattativi e che hanno portato alla richiesta d’aiuto psicologico. In generale i professionisti aiuteranno la persona a gestire adeguatamente i sentimenti di rabbia, collera ed angoscia relativi alla crisi, aiutandola, in tal modo, ad affrontare in maniera costruttiva la situazione critica.


L’aiuto professionale di intervento sulla crisi può essere delineato in due grandi aree:





    • l’area dell’aiuto, nella quale rientrano il counseling e tutte quelle professioni che con la relazione e con l’aiuto hanno a che fare, rivolta a quei momenti critici dell’esistenza che una persona relativamente sana può attraversare, caratterizzati dalla modificazione di un equilibrio precedentemente esistente e che possono necessitare di un aiuto o di un accompagnamento;



    • l’area della psicoterapia, per il trattamento degli aspetti psicopatologici della crisi, intesa come momento patologico caratterizzato dalla modificazione di uno stato di compenso e che necessita pertanto di un intervento specifico.” (Fulcheri M., Cairo E., Torre E. 2005).


Bibliografia:


Jaspers K. (1913): Psicopatologia generale. Il Pensiero Scientifico, Roma (1964).


Caplan G. (1961): An approch to community mental health. New York: Grunne & Stratton.


Fulcheri M. (2005): Le attuali frontiere della psicologia clinica. Centro Scientifico Editore, Torino.






mercoledì 5 novembre 2008

La sindrome dell'Uomo Masherato



Questo post è la recensione di un libro: La sindrome dell'uomo mascherato: come sfatare il mito dell'uomo forte e insensibile, dedicato all'universo maschile che attraversa da oltre un ventennio una grave crisi d'identità. Il testo propone una riflessione e degli spunti al cambiamento per tutti quegli uomini in cui l’emotività e l’affettività sono compresse, fino all’incapacità di sentire e di provare paura, dolore, tenerezza. La difficoltà di contattare emozioni importanti come quelle citate impedisce la possibilità di costruire legami affettivi significativi con le proprie compagne, ma anche con i propri figli.


L’autore, noto psicoterapeuta, svela come l’uomo spesso maschera molte delle sue emozioni adattandosi a caratteristiche psicologiche che si rifanno ad un mito dell’immaginario maschile e femminile, un mito seducente ma anche terribilmente illusorio. Egli pone l’attenzione su come si sviluppa un copione di virilità rigido e limitante e su come la società contribuisce a consolidarlo.


L’Uomo Mascherato nasconde innanzitutto quelle emozioni che, in base ad un pregiudizio diffuso, possono manifestare debolezza come la paura e la tristezza. Fin da piccoli i maschietti vengono addestrati ad essere forti:


“[…] il bambino impara che per essere accettato dal proprio ambiente deve rimanere emotivamente entro un confine preciso, dove sono concesse solo quelle reazioni emotive che appartengono al gruppo dell’aggressività, e quindi la rabbia, la rivalità, la competizione e così via dicendo.” [pg. 80]

Novellino discute che, da un punto di vista etologico, la logica dell’uomo forte ad ogni costo, poteva essere dettata dalla necessità di assicurare alla “tribù” cacciatori e combattenti resistenti, capaci di controllare adeguatamente le proprie emozioni di fronte ai numerosi pericoli che minacciavano la sopravvivenza della comunità. A tal proposito egli mette in evidenza gli studi di Gilmore (1993) concernenti lo sviluppo dell’identità maschile e del concetto di virilità, ove la posizione di vero uomo prevede il superamento di una soglia critica, un rito d’iniziazione per giungere alla conquista di un’identità sessuale maschile. Oggi questa logica è particolarmente evidente nei gruppi criminali, essere forti significa essere accettati dalla cultura del gruppo, ma allo stesso tempo alimenta una spirale violenta e senza fine.


Negare delle emozioni importanti come la paura e la tristezza porta l’individuo a disconoscere aspetti importanti della propria personalità. Sebbene controllare queste emozioni può essere adattativo in condizioni di forte stress ed emergenza, nella vita di tutti i giorni può irrigidire una persona e comportare lo sviluppo di pericolosi comportamenti controfobici. Il mondo non è diviso in lupi e pecore.


Il bambino che da grande diverrà un Uomo Mascherato evita un forte sentimento depressivo derivante dal non sentirsi accettato in tutta la sua dimensione emotiva e psicologica, si adatterà, quindi, al “codice maschile”, all’essere forti. L’aiuto di uno psicoterapeuta sarà utile all’Uomo Mascherato per buttare giù la maschera e imparare a sentire di nuovo le proprie emozioni, accettando di percepirsi anche come una persona che può essere vulnerabile e bisognosa di sostegno e conforto. Questo processo lo aiuterà a sviluppare un’identità maschile realistica.


Qualche parola la merita anche la donna dell’Uomo Mascherato, come sottolinea l’autore: “Non esisterebbero Uomini Mascherati senza le loro Diane”. Esse sono donne che ricercano nell’uomo alcune caratteristiche:





  1. “notevole prestigio sociale (politici, industriali, attori);

  2. aspetto seducente e modi cavallereschi;

  3. notevole chiusura caratteriale, con spontaneità emotiva nulla;

  4. rifiuto a considerare il rapporto sentimentale prioritario rispetto alle loro ambizioni;

  5. tendenza ad abbandonare al momento di un impegno (convivenza etc..)”.

Seppure queste donne sembrano alla ricerca di un rapporto amorevole ed intimo, continuano a cercare uomini che le respingono, in un continuo “copione” di illusioni e delusioni. In realtà queste donne hanno avuto un rapporto idealizzato con una figura paterna assente; il padre rimane una sorta di “fantasma inaccessibile” e continuano ad essere attratte da uomini che le approcciano con fare seduttivo e illusorio, facendole poi rimanere disilluse e arrabbiate. E’ importante per esse riflettere sulle loro emozioni e comportamenti, individuando il piano inconscio che continuano a ripetere, ovvero la ricerca di una persona inaccessibile su cui continuare a fantasticare, così come facevano da piccole con il padre. Anche queste donne hanno paura di provare emozioni profonde, paura di perdere il controllo della situazione: cosa succederebbe se un uomo si avvicinasse davvero a loro con affetto e spontaneità?

L’autore nel libro propone anche dei suggerimenti pratici per tirare giù queste maschere e smettere con le illusioni:




1. “accettare che è umano aver paura: quest’ultima è una reazione di allarme di fronte ad un pericolo, presente in tutto il mondo animale. Serve a preservare l’individuo dal rischio di danneggiarsi o di estinguersi […];


2. accettare che è umano provare tristezza e dolore: sono sentimenti al senso di mancanza e al senso di perdita, anch’essi sono segnali presenti in tutto il mondo animale. Avete mai sentito parlare di quei cani che compiono percorsi enormi per ritrovare i loro padroni?;


3. accettare il bisogno degli altri: l’essere umano, uomo o donna che sia, è un individuo sociale con forti bisogni interpersonali. Per quanto gli uomini abbiano imparato a sublimare quella che gli psicoanalisti chiamano la pulsione d’attaccamento, in varie forme di affermazione sociale (denaro, sesso, sport, politica, guerra), loro non sono meno bisognosi delle donne da quel calore che deriva dalla vicinanza di un altro essere umano, e dalla fiducia che questa presenza rimarrà.”



E’ molto interessante anche leggere nel libro una serie di casi clinici e di personaggi cinematografici che Novellino utilizza per illustrare le dinamiche presentate.


La Sindrome dell’Uomo Mascherato è edito da Franco Angeli, collana Le Comete, 1a edizione 2003.


Michele Novellino è nato a Roma, dove vive e lavora. Psichiatra e psicologo, analista transazionale didatta, direttore dell'Istituto Eric Berne, ha diffuso insieme a Carlo Moiso l'analisi transazionale in Italia. Caposcuola della corrente di psicoanalisi transazionale, ha pubblicato un centinaio di lavori sulla psicoterapia in Italia e all'estero, tra cui: Psicologia clinica dell'Io (Astrolabio, 1991); La sindrome di Pinocchio (FrancoAngeli, 1996) e L'approccio clinico dell'analisi transazionale (FrancoAngeli, 1998).

Il cambiamento e il contratto in psicoterapia




Cosa intendo per cambiamento psicoterapeutico?


Quali concetti dell’Analisi Transazionale utilizzo per facilitarlo?



Quando opero in psicoterapia ho sempre presente che, come affermava Werner, nell’ambito della psicologia evolutiva, “dovunque c’è vita c’è crescita e sviluppo” (Werner & Kaplan 1956). Difatti, nella vita le persone attraversano cambiamenti ricorrenti adattandosi a stimoli sia a livello intrapsichico che relazionale, sulla base di un processo intenzionale ed autodeterminato.



In accordo con il Galimberti (1992) intendo il cambiamento come il risultato della spinta alla trasformazione avvertita dall’organismo, in forza di un equilibrio conflittuale tra tensione e resistenza. Strettamente interrelato al termine di cambiamento è quello di guarigione, e qui intendo “la risoluzione di una condizione patologica, ossia di un’alterazione di una precedente funzionalità dell’individuo nel suo ambiente” (Novellino, 1998).



Fondamento dell’Analisi Transazionale (AT), teoria che prendo come riferimento principale, è il desiderio di conseguire la guarigione attraverso un processo di cambiamento, ma come afferma Berne (1966):



il terapeuta non guarisce nessuno, mentre può effettuare il trattamento in modo che il potenziale curativo del paziente si metta in moto.
Egli utilizza la metafora dei “ranocchi e dei principi” per sottolineare che “guarire” significa togliersi la pelle di ranocchio e riprendere lo sviluppo interrotto di principe o di principessa e che il terapeuta deve agire per metter in moto il potenziale auto-curativo. Pertanto, nella mia attività clinica, l’obiettivo a cui aspiro, nel favorire il cambiamento psicoterapeutico, è quello di far emergere nella persona la vis medicatrix naturae.



Illustro ora come alcuni importanti studiosi in A.T. considerano la guarigione e il cambiamento. Comincio da Berne, che in “Ciao!… E poi?” (1972) afferma che guarire significa uscire dal copione e l’unica strada a tal fine è il recupero della propria autonomia, la quale contempla a sua volta tre importanti capacità dell’essere umano:



a) consapevolezza, intesa come capacità di esser in contatto con il presente senza filtrarlo attraverso le esperienze passate;



b) spontaneità, intesa come la capacità di reagire alle situazioni scegliendo in tutta libertà tra tutte quelle sensazioni, pensieri e comportamenti che una persona può sentire, pensare ed agire senza costrizioni, utilizzando liberamente tutti e tre gli stati dell’Io;



c) capacità di intimità, ovvero la capacità di condividere liberamente le emozioni, i pensieri e i comportamenti con un’altra persona. E’ l’intimità che permette alle persone di creare legami dando e ricevendo affetto.



Per gli Schiff (1975) l’autonomia verrà raggiunta con il superamento della passività. L’individuo è autonomo quando è capace di elaborare soluzioni per un problema e intraprendere un’azione per raggiungerla attivamente. Le sofferenze psicologiche si originano, invece, da comportamenti appresi scaturiti da relazioni simbiotiche non risolte contraddistinte da passività nelle emozioni, nei pensieri e nei comportamenti. Nella simbiosi due persone dipendono l’una dall’altra agendo come se fossero una sola persona e nessuna energizza attivamente tutti i propri stati dell’Io, chi tenta di instaurarla svaluta, attraverso il processo di svalutazione, o distorce, attraverso un processo di ridefinizione, una parte della propria esperienza e cerca la causa, o la soluzione, dei propri problemi negli altri o nel destino.



Secondo Woollams & Brown (1978) guarigione e cambiamento rappresentano un progredire su un continuum ai cui poli ci sono copione e autonomia, anche qui intesa come guarigione. Per gli autori la guarigione non può essere un processo del tipo tutto o niente, in quanto non è concepibile pensare a un “prima” e “dopo” il copione. Pertanto essi propongono il concetto di scala decisionale, che permette di chiarire ciò che si verifica realmente nel processo di cambiamento descrivendo il modo in cui la persona migliora la propria capacità di reagire allo stress rispetto all’ingiunzione che pone il tema del cambiamento. Scopo finale della terapia è aiutare la persona a cambiare le proprie decisioni di copione per mettere in atto desideri più vicini ai desideri del Bambino Libero.



I Goulding (1983), che hanno elaborato il modello della ridecisione, ritengono che per giungere ad un cambiamento non è sufficiente la consapevolezza, ma è necessaria la risperimentazione della situazione problematica. Il cambiamento reale avviene quando la persona risperimenta a livello fenomenologico l’esperienza arcaica e modifica le decisioni prese nelle scene di protocollo.



Nel lavoro di Erskine (1980) la guarigione corrisponde al recupero della spontaneità della persona e una guarigione completa si attua a livello affettivo, cognitivo, comportamentale e fisiologico. Guarire dal copione significa: a livello fisiologico liberarsi dalle tensioni e vivere in modo soddisfacente col proprio corpo; a livello comportamentale non sentirsi più costretti a comportarsi in modo fedele al proprio copione; a livello cognitivo la guarigione si ha quando la persona non è più contaminata dalle convinzioni di copione ma può interpretare le proprie esperienze secondo una visione flessibile di sé, degli altri e della vita; mentre a livello affettivo significa lasciare emergere ed elaborare i sentimenti repressi al tempo della decisione di copione per provare emozioni e sentimenti legati alla situazione attuale.



E’ utile, infine, ricordare anche il lavoro della Levin (1984), per la quale la crescita umana attraversa un ciclo di sviluppo composto da stadi che cominciano nell’infanzia e si ripetono continuamente. Le persone ritornano ciclicamente, nel corso della loro vita, su specifici temi e compiti di sviluppo e in ogni specifica fase potranno riappropriarsi del potere di cui necessitano comprendendo gli obiettivi della propria crescita personale e modificando sempre più le limitazioni copionali. Rigenerare dunque una nuova vita, riciclando le varie fasi evolutive e sviluppando in ognuna di queste una sempre maggior efficacia. Il ciclo di sviluppo della Levin può essere utilizzato come struttura per leggere il processo di cambiamento.



Dopo questo excursus teorico, tornando al mio personale lavoro come clinico, ho già detto che l’obiettivo a cui aspiro è quello di far emergere la vis medicatrix naturae. Pertanto, facendo leva soprattutto sulla sua tendenza naturale a ristabilire condizioni ottimali di adattamento all’ambiente, utilizzo la relazione terapeutica per favorire la crescita e la maturazione della persona stimolando la consapevolezza e la ridecisione. Nel fare questo considero costantemente i dati che emergono nella relazione e la loro sistematizzazione in ipotesi da confermare, o inficiare, durante il processo terapeutico. Per me è importante pensare al copione come una “costruzione narrativa” tra paziente e terapeuta, di cui non è importante verificare una ipotetica realtà, ma di cui è importante capire il significato e i possibili cambiamenti di significato” (Tosi, 1993). Ciò significa che guardo al cambiamento come ad un processo finalizzato alla costruzione di nuovi significati, che va alla ricerca di possibili alternative, nuove e più funzionali, e non ad una guarigione che presuppone semplicemente l’eliminazione di un problema.



Ritengo inoltre indispensabile che terapeuta e cliente, ognuno con i propri compiti, si assumano la responsabilità congiunta di raggiungere un cambiamento, ove il cliente lavora per il proprio cambiamento personale, mentre il terapeuta usa il quadro di riferimento e i concetti dell’AT per facilitarlo. Pertanto per me è prioritario coinvolgere il paziente nel lavoro terapeutico, ai fini di una responsabilizzazione utile al raggiungimento degli obiettivi concordati. Ciò è possibile tramite la realizzazione di un contratto terapeutico.






Il contratto:


è un obiettivo, un cambiamento da raggiungere, è uno strumento prezioso sia perché evidenzia la possibilità di un cambiamento reale e significativo, sia perché durante il processo terapeutico permette di monitorare i passi, rendendo esplicito qual è livello, e la natura, del cambiamento che il cliente può e vuole raggiungere in un determinato momento (Loomis, 1982). Come detto nel paragrafo precedente, il contratto è fondamentale poiché mette in evidenza la responsabilità congiunta al cambiamento.



A seconda del cambiamento che va a determinare, in accordo con Loomis (op. cit.), configuro il contratto a diversi livelli. Nei contratti di controllo sociale (II livello) l’obiettivo riguarda uno specifico aspetto della vita del paziente rispetto al quale occorre un recupero dell’energizzazione dello Stato dell’Io Adulto. A questo livello lavoro sull’Analisi Strutturale degli Stati dell’Io, sulle Contaminazioni, le Esclusioni, l’Economia delle carezze e sulla Strutturazione del tempo. Questi contratti, lavorando su aree specifiche, possono essere portati a termine in tempi relativamente brevi. Nei contratti di relazione (III livello) l’obiettivo che mi prefiggo è il cambiamento nei tre stati dell’Io, l’aumento della consapevolezza, la spontaneità e l’accesso ai sentimenti, attraverso interventi focalizzati sulle decisioni di copione, gli schemi relazionali e le scene traumatiche. Quando è già stato fatto un lavoro preliminare, volto a stabilire il controllo sociale, si può passare ad un vero e proprio contratto di cambiamento (IV livello) ove l’attenzione è rivolta all’Analisi del Copione e agli schemi di funzionamento preverbali e cinestetici utilizzando tecniche di ridecisione, rigenitorizzazione e ristrutturazione del sistema di riferimento per contrastare le decisioni di copione basate sulle ingiunzioni. Questo contratto può richiedere anni per la sua piena realizzazione.



In sintesi ritengo di poter parlare di cambiamento quando il cliente raggiunge gli obiettivi stabiliti nel contratto e, in linea generale, ha recuperato l’autonomia come funzione di un Adulto integrato e fuori del copione. Nel corso del “processo” di integrazione la persona si assume la responsabilità di tutto ciò che sente, pensa e crede, solo così può giungere ad un pieno contatto col proprio potenziale umano. Come un buon genitore avrà un sincero interesse e impegno verso gli altri, una intelligenza e una capacità di risolvere i problemi tipica di un adulto e una capacità di creare, di esprimere meraviglia, di dimostrare affetto tipiche di un bambino sano e felice (James, M. & Jongerward, D. 1971).





Bibliografia:



Berne, E. (1966), Principi di terapia di gruppo, Roma, Astrolabio (1986).


Berne, E. (1972), Ciao… e poi?, Milano, Bompiani, 1979.


Erskine, R. (1980), Script cure, behavioral, intrapsychic and physiological, TAJ, vol. 10, n.2.


Galimberti, U. (1992), Dizionario di Psicologia, Utet, Torino.


Goulding, M., Goulding, R.L. (1983), Il cambiamento di vita nella terapia ridecisionale, Roma, Astrolabio, 1979.


James, M. & Jongerward, D. (1971), Nati per vincere, Edizioni Paoline, Roma, 1980.


Levin, P. (1984), Il ciclo di sviluppo. In: Scilligo P., Bianchini S., (a cura di). Rielaborazione a cura di Raffaele Mastromarino. I Premi Eric Berne. Roma: IFREP.


Loomis, M., (1982), Contracting for change, TAJ, vol. 12, n.1.


Novellino, M. (1998), L’approccio clinico dell’Analisi Transazionale, Milano, Franco Angeli.


Schiff, A., Schiff, J. (1975), Analisi Transazionale e cura delle psicosi, Roma, Astrolabio, 1980.


Tosi, M.T. (1993). Copione e cambiamento: una prospettiva narratologica: Polarità,7,1993.


Werner & Caplan (1956), The development approch to cognition: its relevance to the psychological interpretation of anthropological and ethnolinguistic data, “American Atrntropologist”, 58, pp. 866-80, ripubblicato in S.S. Barten, M.B. Franklin (a cura di), Development processes. Heinz Werner’s selected wrigths, vol. 1, International University Press, New York, 1978.


Woollams, S. & Brown, M. (1978), Analisi transazionale, Assisi, ed. Cittadella, 1985.










sabato 1 novembre 2008

Cos'è e come funziona l'Analisi Transazionale?




L'Analisi Transazionale (A.T.), fondata da Eric Berne (1910-1970), è una teoria sia psicologica che sociale, caratterizzata da un contratto bilaterale di crescita e cambiamento. Come sistema di psicoterapia l'A.T. viene utilizzata nel trattamento di disturbi psicologici di ogni tipo, essendo un metodo di psicoterapia individuale, di coppia, di gruppo e familiare .



Le prime pubblicazioni sull’A.T. risalgono al 1949, quando lo psichiatra canadese E. Berne diede luce ad una serie di articoli sull’intuizione. L’interesse verso i processi di pensiero di tipo intuitivo nacque in Berne durante la seconda guerra mondiale, quando l’autore, dovendo effettuare numerose visite cliniche-psichiatriche al giorno, si confrontò con il problema di resistere alla routine e di tener desta l’intuizione. Via via egli scoprì che riusciva, in un elevato numero di casi, ad intuire che tipo di lavoro facevano i vari soldati.



Finita la guerra mise insieme questi pensieri e iniziò a creare le fondamenta teoriche dell’A.T. Le osservazioni di Berne si concentrarono sulle variazioni di comportamento che avevano luogo in una persona quando si attivava uno stimolo nuovo. Egli cominciò a porre attenzione a quei cambiamenti nell’espressione del viso, nell’intonazione delle parole, nella postura del corpo, nel portamento, nei gesti, nella strutturazione delle frasi etc. Notò allora che ogni persona racchiudeva in sé svariati “se stessi” e di volta in volta qualcuno di essi prendeva il sopravvento nella personalità dell’individuo. Ad esempio la persona qualche volta si comportava da Bambino e qualche volta da Adulto , a queste strutture di personalità ben definite diede il nome di stati dell’Io; più tardi aggiungerà il Genitore . In seguito approfondì il modo in cui queste strutture di personalità si relazionavano con il mondo esterno e cominciò ad analizzare le transazioni (unità di scambio reciproco tra due persone). Scoprì quindi che alcune transazioni avevano scopi ulteriori e che servivano a manipolare gli altri in “giochi” psicologici. Inoltre si accorse che spesso le persone si comportavano in modi preordinati, proprio come se stessero recitando un copione su di un palcoscenico. Approfondiremo tra breve questi concetti.



Abbiamo visto che all’inizio l’attenzione di Berne è prevalentemente legata alla fenomenologia e allo studio della struttura della personalità, successivamente egli si concentrò sulla comunicazione latente e manifesta, mettendo a frutto i suoi interessi sulla cibernetica di Weiner e Korzysky. Nella terza fase il fulcro centrale fu l’analisi del copione, ovvero lo studio del piano di vita delle persone.



Con questa brevissimo excursus storico ho voluto sottolineare come l’A.T. abbia preso le mosse dallo sviluppo delle capacità intuitive e dall’attenzione alla globalità della persona. Eric Berne nelle sue teorie riuscì a far collimare la cultura scientifica a quella umanistica, del resto, come lui stesso ammise, egli seguì la vocazione di entrambi i suoi genitori, quella del padre medico e della madre scrittrice.



L’A.T. è una corrente della psicologia umanistica-esistenziale (Maslow, Rogers, Perls, Allport) e in tal senso non corrisponde semplicemente alla concezione medica della guarigione da una malattia. Infatti,



la sofferenza psichica viene vista come un blocco di crescita del potenziale psicofisico dell’essere umano ” (Novellino, 2003).
Ci sono alcuni presupposti filosofici che caratterizzano l’A.T. e che è interessante considerare:



Assunti Filosofici dell'Analisi Transazionale:



- ogni individuo è ok (va bene così com'è) : le persone sono uguali tra loro ed ognuna ha valore in quanto persona, indipendentemente dalla sua razza e dal suo contesto socio culturale;



- ogni persona ha la capacità di pensare e di autodeterminarsi: ognuno può decidere che cosa fare della propria vita ed ha la capacità di crescere e di imparare qualunque esperienza abbia avuto anche negativa;



- le decisioni prese possono essere modificate: ciascuna persona prende delle decisioni e ne è responsabile, ed è anche responsabile di cambiarle quando non sono più funzionali.





A.T. e modello decisionale




La teoria dell’Analisi Transazionale è basata su un modello decisionale. Ciascuno di noi impara comportamenti specifici e decide un piano di vita nell’infanzia. Benché le nostre decisioni infantili siano fortemente influenzate dai genitori e da altre persone, siamo noi stessi che prendiamo queste decisioni nel modo peculiare di ogni persona. Dal momento che siamo noi ad aver deciso il nostro piano di vita, abbiamo anche il potere di cambiarlo , prendendo nuove decisioni in qualsiasi momento.




Contrattualità dell’A.T.



La metodologia di intervento dell' AT si fonda sulla contrattualità : la relazione terapeutica è vista come un accordo tra terapeuta e cliente, che hanno una responsabilità congiunta nel lavorare per raggiungere gli obiettivi di terapia definiti in modo chiaro e specifico.

“Il paziente viene quindi responsabilizzato dall’inizio a porsi come controparte attiva di un professionista il cui compito non è quello di risolvere i problemi del paziente, bensì quello di aiutare a comprendere come finora si è bloccato dal risolverli da solo. (Novellino, 1998).



I contratti di terapia, attraverso i quali viene specificamente stabilita la meta della terapia, possono essere distinti in contratti di controllo sociale e contratti di autonomia.



I contratti di controllo sociale (terapia breve), sono accordi di terapia tesi a risolvere un problema specifico e hanno come obiettivo un cambiamento comportamentale e il suo mantenimento nel tempo.



Per contratti di autonomia (terapia che può richiedere anni) si intendono invece quei contratti in cui la meta della terapia non è solo un cambiamento comportamentale ma un cambiamento del copione della persona, per cui la terapia non è rivolta solo ad un sollievo dai sintomi, bensì alla ristrutturazione della personalità.



Per spiegare questa differenza usiamo una metafora ideata da Berne : ciascun individuo nasce principe o principessa ed esperienze negative precoci convincono alcune persone ad essere ranocchi, da ciò deriva lo sviluppo della patologia. Gli obiettivi terapeutici possono essere due: il primo tende al miglioramento, ad un progresso che equivale ad uno star meglio come ranocchi ; il secondo tende a curare, a guarire che significa togliersi la pelle del ranocchio e riprendere nuovamente lo sviluppo interrotto del principe o della principessa .




Sviluppo dell'Analisi Transazionale



E’ importante considerare che lo sviluppo dell’A.T. coincide solo in parte con la storia e la vita di Eric Berne. Un caposaldo dell’A.T. è tuttora la sua integrazione con la Gestalt (grazie all’opera dei Goulding, allievi di Perls), ma l’A.T. integra al suo interno anche la tradizione teorica della teoria delle Relazioni Oggettuali in campo psicoanalitico, oltre a tecniche cognitiviste e comportamentali. Importanti sviluppi neopsicoanalitici si sono avuti anche grazie al contributo di autori italiani (Moiso e Novellino) che hanno inserito nel quadro teorico concetti clinici psicoanalitici utili soprattutto per il lavoro sugli stati borderlines (scissione dell’Io, controtransfert. etc).


Negli ultimi anni l'A.T., grazie al contributo di studiosi anglosassoni sta integrando all'interno del suo assetto teorico anche le più recenti acquisizioni operate dalle neuroscienze, in particolare le basi neurofisiologiche degli stati dell'Io, l'accesso alle memorie implicite e la formazione delle memorie episodiche.


In Italia, oltre al già citato approccio psicodinamico di Novellino , è molto attivo il gruppo di ricerca di Pio Scilligo , il quale sta sviluppando un'ulteriore integrazione dell'A.T. con il modello SASB di Lorna Smith Benjamin.



L’A.T. ha avuto una progressiva espansione a livello mondiale e una strutturazione in organizzazioni nazionali e internazionali. L’ITAA (International Transactional Analysis Association) assicura rigorosi standard formativi e tutela il titolo di Analista Transazionale la cui formazione è riconosciuta solo se svolta con formatori riconosciuti dall’ ITAA o dalle associazioni continentali affiliate: in Europa abbiamo l’ EATA (European Association Transactional Analysis).




Principi di base dell'Analisi Transazionale



Per illustrare i principi di base dell’A.T. teniamo presente che essa può essere suddivisa in quattro aree (Novellino, 2003):


Area: Oggetto:

a) Analisi strutturale: Processi intrapsichici;



b) Analisi delle transazioni: Processi relazionali;



c) Analisi dei giochi psicologici : Processi relazionali distorti che conducono ad



un rafforzamento della patologia;



d) Analisi del Copione: Programma di vita basato su esperienze infantili che



conducono a decisioni autolimitanti.





a) Analisi Strutturale.



Per comprendere il comportamento di una persona, occorre essere consapevoli di quello che succede al suo interno. Per realizzare questa analisi possiamo suddividere la personalità in diverse parti, consistente ognuna in una struttura integrata di pensieri, emozioni e comportamenti, a cui diamo il nome di stati dell’Io . L’analisi strutturale permette di rappresentare le componenti storiche e biologiche della personalità e si occupa del contenuto dello stato dell’Io; per rappresentare il suo funzionamento si ricorre all’analisi funzionale , che descrive come una persona usa i suoi stati dell’Io per rapportarsi a se stesso e agli altri.



STATI DELL’IO



Berne definisce uno Stato dell’Io come un insieme coerente di pensieri, sentimenti ed esperienze direttamente correlate ad un insieme coerente di modelli di comportamento. Sebbene ogni persona possiede infiniti Stati dell’Io l’autore li raggruppò in tre grossi insiemi chiaramente distinti e osservabili:



Il Genitore (G)



Il Genitore è l’insieme di pensieri, sentimenti e comportamenti che incorporiamo dall’esterno durante la nostra infanzia ed adolescenza dalla relazione con le figure significative: i nostri genitori reali (o chi ne fa le veci), dai parenti, maestri, insegnanti, o da tutte quelle persone autorevoli che incontriamo negli anni della nostra formazione. Per esempio un genitore si può accorgere che a volte assume un comportamento simile a quello dei propri genitori quando sta utilizzando in modo automatico il proprio Stato dell’Io G. Esternamente si identifica spesso in comportamenti pregiudiziali, critici o protettivi; dall’interno è vissuto come vecchi messaggi Genitoriali che continuano ad influenzare il Bambino interno.



Funzionalemente si può avere il Genitore Normativo o Critico (GN) quando si manifestano atteggiamenti di divieto e di comandi, sancisce le regole, detta le leggi etc, ed il Genitore Affettivo (GA), che invece si prende cura, mostra attenzione, premura etc.



L’ Adulto (A)



L’Adulto è un insieme obiettivo di pensieri, sentimenti e comportamenti coerenti con la situazione che stiamo vivendo (qui ed ora) e indica la nostra capacità di elaborare continuamente nuovi dati. Infatti, per gestire la nostra realtà attuale abbiamo bisogno di trovare in continuazione strategie efficaci senza subire interferenze limitanti da Stati dell’io arcaici o incorporati dall’esterno.



Il Bambino (B)



Il Bambino è l’insieme di pensieri, sentimenti e comportamenti che risalgono alla nostra infanzia. Contiene le registrazioni delle prime esperienze di vita e delle “posizioni” che il bambino ha assunto verso se stesso e gli altri. A livello strutturale è uno Stato dell’Io arcaico e si manifesta come vecchi comportamenti dell’infanzia, così come reagivamo da bambini.



Si parla di Bambino Adattato (BA) se attiviamo un comportamento correlato all’influenza genitoriale e Bambino Libero (BL) quando esibiamo forme di comportamento autonomo, senza l’influsso genitoriale. Sia il BA che il BL possono essere positivi o negativi a seconda che siano efficaci e più o meno adatti alla situazione attuale. E’ quella parte della nostra personalità che ci fornisce le motivazioni principali del nostro agire.



Per facilitare la comprensione illustriamo degli esempi (adattati da Wollams Brown, 1978):




Il GA + si prende cura di un’altra persona con amore, quando quest’ultima ne ha bisogno e lo desidera – “Certo farò questo per te”.


Il GA – è sia troppo permissivo, sia troppo affettivo, in quanto fa per gli altri cose che non erano richieste o di cui non avevano bisogno – “Fammi fare questo per te”.


Il GC + è forte e dogmatico e prende le difese dei diritti suoi o degli altri senza umiliare nessuno – “basta! Questo non è giusto!”


Il GC – cerca di togliere l’autostima ad un’altra persona – “perché fai sempre così?”


L’ A calcola le probabilità usando termini definibili operativamente – “Se usiamo questo tipo di acciaio c’è un’alta probabilità che il ponte resterà a un vento di 150 miglia all’ora”.


Il BA + ottiene ciò che vuole o almeno evita il dolore compiacendo a ciò che, secondo lui, i “grandi si aspettano da lui – “Sissignore”, a un superiore, e “per piacere2 e “grazie” quando sono richiesti.


Il BA – si comporta in modo autodistruttivo per ottenere l’attenzione degli altri – dimentica di fare il saluto al Generale, e poi si meraviglia che le cose vadano sempre così male per lui.


Il BL + esprime direttamente quello che passa nella sua mente, si diverte, vive in intimità con gli altri e non fa del male a nessuno nel far ciò – “Ehi, giochiamo”


Il BL – fa del male agli altri o a se stesso nell’esprimersi e nel divertirsi – “Andiamo più veloci” anche quando è pericoloso. Ci sono pochi esempi di questo comportamento. Per lo più molti comportamenti che a prima vista possono essere del BL negativo sono in realtà azioni del BA autodistruttivo.




E’ importante sottolineare che ciascuno di noi possiede ed utilizza tutti e tre gli Stati dell’Io, sebbene possa esserci la tendenza a utilizzare in modo privilegiato uno dei tre: per esempio una persona che tende ad essere iperprotettiva, a farsi carico in modo esagerato dei problemi degli altri oppure a criticare eccessivamente, a dettare norme e regole di comportamento a chi gli sta vicino, si può facilmente ipotizzare che utilizzi in prevalenza lo stato dell’Io Genitore.



L’Analista Transazionale guida il paziente al riconoscimento e alla consapevolezza dei propri Stati dell’Io affinché egli possa utilizzarli tutti e tre in modo positivo, arricchendo così le proprie opzioni e migliorando la qualità della propria vita e delle proprie relazioni. L’obiettivo principale del terapeuta AT è, infatti, decontaminare l’A affinché la persona possa agire nel presente in modo appropriato ed efficace, integrando nel suo modo di agire sia gli insegnamenti introiettati nel suo G, sia le esperienze vissute contenute nel suo B e pertanto essere autonomo.





2) Analisi delle transazioni



L’Analisi Transazionale prende il nome dalle transazioni, definita come l’unità del rapporto sociale : o gni volta che una persona è in relazione con un’altra persona si avranno delle transazioni. Ogni transazione è composta da uno stimolo e da una risposta ; le transazioni vengono scambiate tra i rispettivi stati dell’Io di due persone.



Le transazioni sono classificate in Complementari, Incrociate, Ulteriori e a ciascun tipo di esse corrispondono diverse regole della comunicazione.



L’analisi delle transazioni costituisce il ponte tra livello intrapsichico e livello interpersonale nella psicoterapia ; si occupa della diagnosi degli stati dell’Io che hanno emesso gli stimoli o le risposte, con la finalità di favorire il controllo sociale, cioè il controllo del comportamento nelle relazioni sociali, da parte della struttura dell’Adulto. La persona divenendo maggiormente consapevole degli stati dell’Io che attiva quando comunica con gli altri raggiunge una maggiore efficacia nella comunicazione e un conseguente benessere relazionale. Tale approccio costituisce una peculiarità dell’A.T. e uno dei suoi punti di forza.






3) Analisi dei giochi psicologici




“Il gioco psicologico è una serie di transazioni ulteriori [che hanno uno scopo ulteriore, incongruente con il messaggio verbale] ripetitive a cui fa seguito un colpo di scena con una scambio di ruoli, un senso di confusione accompagnato da uno stato d’animo spiacevole come tornaconto finale, in termini di rinforzo di convinzioni negative su di sé, sugli altri, sul mondo”.

L’A.T. aiuta ad essere consapevoli dei propri giochi, a smettere di giocare o a giocare in modo meno “pericoloso” .


I vantaggi che si hanno nel giocare i giochi possono essere così riassunti (Novellino, 2003):




  1. ottenere carezze (da intendersi in A.T. come “unità di riconoscimento”).;

  2. strutturare il tempo (cioè il procurarsi ed organizzare il proprio bisogno di contatto sociale);

  3. mantenere la posizione esistenziale (atteggiamento più o meno positivo nei confronti di sé e degli altri);

  4. portare avanti il copione;

  5. evitare l’intimità;

  6. continuare ad avere un rapporto emotivo anche dopo il fallimento di una relazione di ricatto;

  7. accumulare bollini, ossia reazioni emotive che verranno usate in seguito come giustificazione di un dato comportamento;

  8. rendere la gente prevedibile.

In breve i giochi sono modalità reciprocamente distorti di procurarsi carezze a cui fa seguito una svalutazione di sé, degli altri e del mondo esterno; essi possono essere abbandonati solo quando la persona ha trovato modi alternativi e sani di procurarsi carezze positive che contengono il messaggio “tu sei ok”.






4) Analisi del Copione psicologico



Berne in “Ciao e Poi” (1972) definisce il copione come: “un piano di vita basato su una decisione presa nell’infanzia, rinforzata dai genitori, giustificata dagli eventi successivi e culminante in una scelta decisiva” . E’ dunque un piano di vita personale che un individuo decide da piccolo in base alla sua interpretazione degli eventi sia esterni che interni, dei messaggi ricevuti dai genitori e che viene sostenuto da decisioni successive. Il bambino decide il suo copione tra i 3 e i 6 anni; le decisioni prese sul corso della vita, rimangono inalterate anche se le situazioni si modificano, infatti, man mano che il bambino entra nelle fasi successive di sviluppo struttura versioni aggiornate del copione, allo scopo di adattarlo alle nuove realtà che vive ma mantenendone inalterato lo schema base.



Spesso le persone hanno un copione limitante e sofferente, un percorso terapeutico può aiutarle a divenire consapevoli del proprio copione e a modificarlo. All’interno del quadro di riferimento dell’AT, ciò che rende efficace un intervento è aiutare la persona a tornare a quelle prime esperienze di vita, mediante le quali, il bambino, per proteggersi, aveva inibito le proprie potenzialità prendendo delle decisioni , che allora erano necessarie per la sua sopravvivenza fisica o psichica (es. “non fidarsi degli altri”), ma che ora non sono più funzionali; nell’ambiente protetto della terapia la persona può ridecidere di comportarsi in modo diverso per vivere una vita più soddisfacente nel presente.




Il terapeuta A.T. nel percorso di ridecisione con la persona amplifica l’efficacia del trattamento usando le 3 P: permesso , protezione , potenza . Il terapeuta, attraverso l’ascolto, implicitamente dà il permesso di cambiare. In seguito, in modo esplicito, potrà dare permessi per lasciare che la persona sperimenti nuove modalità alternative alle vecchie decisioni di copione. Inoltre, rispettando il paziente in ogni sua azione e facendo un buon contratto di terapia, dà protezione al paziente e a se stesso. Il terapeuta è potente nella relazione con il paziente perché usa in modo integrato tutti e tre gli stati del suo Io :

“ha un G che incoraggia e si prende cura del benessere del cliente; ha un A che ascolta, coglie informazioni importanti, fa ipotesi e le verifica; ha un B liberato che si diverte, ha energia, usa le sue capacità creative e intuitive, ed è in grado di concedere permessi dando protezione”. (Castagna, 2003).



Una considerazione importante sulla quale voglio portare l’attenzione è che, nel modello ridecisionale dell’A.T., non vi è viene una visione deterministica per la quale i genitori sono i soli responsabili della natura del copione , ma viene sottolineato ampiamente anche il ruolo attivo del bambino . I messaggi negativi esterni inviati dalle figure significative, sono visti come convinzioni proibitive profonde, ma che hanno avuto anche origine dalla elaborazione, ovvero dall’interpretazione degli eventi, da parte del bambino piccolo. (Goulding Goulding, 1983). Se da una parte i messaggi negativi, accettati dal bambino, possono divenire fonte di malessere perché troppo rigidi e limitanti, dall’altra parte hanno permesso a quel bambino una sorta di sicurezza e protezione, a cui l’Adulto, nel processo ridecisionale, può scegliere di rinunciare per sbloccare la sua crescita.



I disturbi psichici con cui l’approccio A.T. è indicato sono (adattato da Novellino, 2003) :



  • le strutture nevrotiche , anche gravi, sia fobico-ossessive che isteriche e depressive ;


  • le strutture borderline , poiché queste hanno bisogno di un setting ben strutturato, direttivo, chiaro, teso alla focalizzazione sulla realtà;


  • le strutture psicosomatiche , per le quali è stato elaborato, nell’ambito dell’A.T., un lavoro di tipo corporeo, che facilita l’accettazione del vissuto corporeo da parte del paziente psicosomatico, attraverso l’integrazione di tecniche mutuate da altri approcci (es. terapia della Gestalt e Bioenergetica);


  • le strutture psicotiche , a condizione però che sia possibile il lavoro in una struttura di tipo comunitario-residenziale ; per le strutture psicotiche in compensazione l’A.T. è in grado di offrire il setting adatto .




Per trattazioni approfondite suggeriamo i seguenti libri:



Berne, E. (1961). AT e Psicoterapia . Trad. it. Roma: Astrolabio, 1971



Berne, E. (1964). A che gioco giochiamo. Trad. it. Milano: Bompiani, 1967



Berne, E. (1966). Principi di terapia di gruppo . Trad. it. Roma:Astrolabio, 1986



Berne, E. (1972). Ciao…e poi? Trad. it. Milano: Bompiani, 1978



Castagna , M. (2003). L’analisi transazionale nella formazione con gli adulti. Milano: Franco Angeli



Goulding, R. M .(1979). Il cambiamento di vita nella terapia ridecisionale . Trad. it. Roma: Astrolabio, 1983



James, M. (1989). Nati per vincere . Trad. it. Roma: Paoline, 1980



Moiso e Novellino (1982). Stati dell’Io. Roma: Astrolabio



Wollams, M. e Brown, S . (1978). L’Analisi Transazionale . Trad. it. Assisi: Cittadella, 1985



Novellino, M. (1998). L’approccio clinico dell’Analisi Transazionale . Milano: Franco Angeli



Novellino, M. (2003). La sindrome dell’uomo mascherato. Milano: Franco Angeli